Il ritorno della nostalgia

“Si stava meglio quando si stava peggio”, un detto popolare non ancora caduto in disuso, dalla pregnanza tutt’altro che scontata nonostante l’apparente contraddizione. Il ritorno alla nostalgia per un passato ideale e/o preferibile al presente non è mai scemata, conservata gelosamente come un tesoro in qualche recesso della nostra psiche, nella quale risuonano gli echi di una società coerente, di un’epoca d’oro non collocabile precisamente nell’asse temporale. Orazio, Tito Livio, Marziale, Giovenale, Persio, Tacito: in misura differente già gli autori latini, durante l’età augustea e imperiale, si sono lasciati trasportare dal vagheggiamento per un passato migliore (la virtus repubblicana o, ancora prima, gli albori della incorrotta civiltà romana), in contrapposizione a una società dai costumi disinibiti nella quale non riuscivano a identificarsi.

Chiunque può inciampare nella medesima deriva, una riflessione che sosta proprio dietro l’angolo, pronta a balzare alla giugulare del primo interlocutore sprovveduto che giunge ignaro del pericolo. È un processo ricorrente, un’esigenza psicologica che ha i contorni del mito. L’uomo, infatti, ha la persistente abitudine, difficile da debellare, di cristallizzare il passato in immagini che prevalgono sulla realtà storica. La trasfigurazione del passato e il rifugio nella nostalgia è una tendenza che possiamo riscontrare in ambito politico, sociale, ma anche culturale e letterario.

Quale ragazza non sogna di essere Elizabeth Bennet, leggendo Orgoglio e Pregiudizio di Jane Austen, o qualsiasi altra debuttante nella Londra dell’Ottocento? Tuttavia nel processo di identificazione con l’eroina del romanzo vittoriano si dimenticano per strada, come le briciole di pane di Hansel e Gretel, alcuni dettagli non proprio irrilevanti. Vogliamo parlare dei corsetti con le stecche di balena, del sunbonnet che al massimo poteva rendere graziosa una governante poco attraente e dell’astruso codice di comportamento che bisognava tenere in qualsiasi circostanza? Passando ad argomentazioni meno frivole, la condizione della donna inglese nel XIX secolo non era propriamente delle più favorevoli: non poteva accedere all’educazione come gli uomini; spesso veniva lasciata nell’ignoranza; aveva limitate prospettive lavorative che si riducevano a vendere il proprio corpo, fare l’istitutrice, la governante e la dama di compagnia; non era inusuale che non avesse alcuna voce in capitolo in merito alla scelta del marito, in particolare se apparteneva alla upper middle class o alla nobiltà; non poteva uscire senza essere accompagnata da un adeguato chaperon, non poteva possedere denaro proprio (eccetto in qualche particolare circostanza) e, anche se primogenita, non era la depositaria dell’eredità parentale: alla morte del padre doveva essere il parente maschio più prossimo a doversi preoccupare del suo mantenimento. L’immagine del femminile era duplice: angelo del focolare o prostituta. Tertium non datur.

In ogni epoca storica, dunque, possiamo rintracciare pregi e difetti, sebbene durante le nostre contemplazioni estatiche tendiamo, chissà come, a tralasciare gli aspetti negativi che inficerebbero lo smalto di raffinatezza della nostra fantasia, selezioniamo i ricordi, li riordiniamo come in un puzzle di strutture simboliche riconoscibili, e cerchiamo di allontanare ancora per un poco quell’insinuante lucidità che ci farebbe scorgere the dark side of the moon, quella che non vorremmo vedere. Anche adesso siamo vittime della nostalgia. La mia generazione è cresciuta con i racconti appassionati della gioventù dei propri genitori: gli aggressivi anni ‘70 e ‘80, i divertimenti sani, la buona musica, i viaggi in autostop, Il tempo delle mele, Grease… Quale nonna, poi, non ha proferito con sdegno e un pizzico di condiscendenza le parole: “Ah, i giovani d’oggi!” nelle più svariate declinazioni dialettali, mentre stava appollaiata nella poltrona davanti al televisore?

Esiste, inoltre, un tipo particolare di nostalgia che affligge un abitante su qualche milione, senza differenze d’età. E se stiamo parlando di lettura, cosa potrà mai riguardare? Il libro, naturalmente, sebbene sia assediato da una diffusa disaffezione da una parte, e dall’avvento degli e-book dall’altra.

La nostalgia è quella di Gutenberg: le lettere stampate, che si rincorrono sul foglio per rendere tangibili pensieri e idee fino ad allora invisibili. È la patria di Dante, infatti, a dare origine a una inusuale forma di protesta per il diritto alla cultura che resuscita il libro come simbolo di una rinata coscienza culturale. Il fenomeno è quello dei Book Bloc, denominazione coniata dal collettivo italiano Wu Ming, il cui romanzo Q, pubblicato sotto lo pseudonimo di Luther Blisset per Einaudi, ha avuto l’onore di figurare tra Il cavaliere inesistente, 1984, Fight Club, Furor, Don Chisciotte e molti altri classici, uno dei primi libri contemporanei apparsi assieme a Gomorra di Roberto Saviano e Noi saremo tutto di Valerio Evangelisti. Fallisce così, almeno per il momento, un atto di pirateria della politica votata alla svalutazione della cultura come appannaggio della collettività, a favore di una sempre maggiore concentrazione della stessa, come è successo in Inghilterra in seguito alla legge del governo Cameron sull’aumento delle tasse universitarie; tale provvedimento ha comportato il calo del 7,4% delle iscrizioni nel 2012, percentuale che sale all’8,7% considerando solo gli studenti britannici con cali anche del 20/25% negli atenei.

La prima apparizione dei “libri-scudo” risale al 23 novembre 2010, a Roma, quando i manifestanti scesero in piazza contro la riforma universitaria Gelmini. Il fenomeno si è successivamente diffuso come un virus: Stati Uniti, Inghilterra, Spagna, Svezia, Germania. L’adesione globale a questo tipo di contestazione, anche politica, testimonia l’esistenza di un comune denominatore: una diffusa insofferenza verso la noncuranza cui sono soggetti la cultura, l’istruzione, la formazione degli studenti, elementi fondamentali per la costruzione di cittadini consapevoli e persone che possano esprimere le loro potenzialità contribuendo a migliorare il paese in cui vivono. L’obiettivo è veicolare un messaggio – rivolto alle istituzioni, alle generazioni precedenti, ai genitori, ma anche ad altri giovani – per cambiare una tradizione che ha soffocato, per larga misura, l’iniziativa giovanile e marginalizzato la lettura come percorso indispensabile per gli individui. Il desiderio, e la pretesa, è quello di rinnovamento. La cosa che stupisce è che i promotori siano proprio i nativi digitali, i giovani studenti che la rivoluzione tecnologica l’hanno vissuta più intensamente, una generazione cresciuta sul web, che comunica con WhatsApp e considera Facebook il proprio analista.

“So di distretti in cui i giovani si prosternano dinanzi ai libri e ne baciano con barbarie le pagine, ma non sanno decifrare una sola lettera.”

La descrizione di Borges, datata 1941, potrebbe adattarsi perfettamente a una delle derive paventate da alcuni riguardo i libri come strumenti di difesa e attacco ideologico. I Wu Ming lo spiegano in un’intervista per Einaudi:

“Se la tattica del Book Bloc verrà riproposta, c’è da augurarsi che quegli scudi-libro non subiscano una sotto-connotazione. Non basta scrivere un titolo su un rettangolo di plexiglas, bisogna anche essere consapevoli del mondo di riferimenti che viene evocato. È una cosa che, anche in Italia, va oltre il Book Bloc. Le donne che, per le tante manifestazioni simultanee del 13 febbraio, hanno scelto come motto Se non ora, quando?, cioè il titolo di un romanzo di Primo Levi, hanno evocato immagini di resistenza, di dignità umana. E la cosa ha dato fastidio ai detrattori, che hanno parlato di una similitudine esagerata tra sessismo italiota e Shoah. Ma la frase, in origine, non è riferita alla Shoah: è tratta da un libro del Talmud, ed è un invito a uscire dalla prigione della propria mente, delle proprie abitudini.”

I libri diventano il simbolo di una cultura che ha perso la sua centralità, riposta nell’angolo della soffitta come un oggetto di poca importanza, i Book Bloc la mobilitazione tardiva per salvare un paziente agonizzante. Dopo tre anni, infatti, non si notano sensibili cambiamenti o inversioni di tendenze. Volgendo lo sguardo indietro alla storia italiana del ‘900, da bravi nostalgici quali siamo, notiamo un precedente a cui aspirare per un cambiamento da attuare nell’oggi, per stabilire un’abitudine alla cultura latitante? Benché il Novecento venga ricordato per il ruolo nodale degli intellettuali che, letteralmente, dominarono un’epoca storica, non possiamo esimerci dal fare qualche considerazione riguardo la loro condotta. Pochi, infatti, sono stati gli intellettuali che non si sono resi complici del regime, “rivendicando l’autonomia della cultura, la sua libertà dal potere e la sua universalità umana”. È auspicabile quindi istituire un’egemonia della cultura, della lettura, delle idee, da sempre appannaggio di un’elite “illuminata”? Non è stata forse questa la “fatale presunzione” del secolo scorso?

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About sex, love and other remedies: True Blood

On account of a friend I found myself reading about Ask.fm (of which I have not still caught the inherent meaning, apart from a continuous showing off). I do not have sex: but love: the antithesis of the nowadays famous I fuck hard by Christian Grey, the playmate of millions of women, who bothered even the firemen, and not for a streaptease. The user of the social network is feminine and it is plain to see. It is usually a woman who embodies a romantic ideal of the couple, as well as the guardian of a universal allegory that has been customizing her for centuries.

The feminine’s image is like a sheet of paper: no thickness, two-sided only, the Saint or the Whore. Women are the custodian of positive values: Procreation, Trueness to a man and Self-denial to the neighbour, even when it leads to an extreme negation of one’s identity. This is due to the fact they are entirely programmed to sacrify themselves, not caring about their own value. In most cases, women are perceived as mere physicalness, and the feminist’s debate mainly focuses on body commercialization, even for toothpaste advertising, and it does not deal too much, I think with dentine enamel’s brightness. This image is a cultural construction that is still alive, in a cyclic gender backlash that makes us revert to the previous state, giving us only a fleeting satisfaction.

However, what if the roles should reverse? How the public could react if some of the peculiar masculine attitudes were given to a woman? We have an answer thanks to Sookie Stockhouse’s performance on the seventh episode of the current season of True Blood, entitled In the Evening. At the end of the previous episode, Don’t You Feel Me, Sookie gives herself to Warlow, after these words “Downtown this is what they think about me: they call me a danger loving slut. And you see: I think they are right.” She showes an emblematic look on her face: she is in despair, almost hopeless. The core of ideals and hopes of the series, she who has taken up the vampiric nature – twice – decides fighting is not worthwhile anymore. There is a growing feeling of resignation in Sookie’s mind, she who was till then projected to the happy ending, although her desire to be loved cannot be so easily erased. “Forever” is a psychological need, indelibly imprinted in our DNA: it is not only happy ending in Disney’s style.

In these case the roles of man and woman are reversed: Sookie is the one who keeps her distance, her cynism is an armor which shields her own feelings, while Warlow is the illusions’ depositary. “Do you think that just because we had sex now I am gonna marry you’?” […] “Did you ever go to bed with other women when things did not work between us?” “You know that it was not just sex” Warlow says. “It is not a simple crush”. “No, it never is” is Sookie’s reply. And behind that dull irony we can see some kind of truth, because Sookie finds it difficult to tell apart physical pleasure from love, which always seems to drift away from her hands. The general opinion of the fandom about ‘miss fair’ never exceeded the unforgettable definition of Pam, in the fourth season: “I am so over Sookie and her precious fairy vagina and her unbelievably stupid name!” Sookie is nothing but the trasformation of a Saint (previously exquisitely virgin) into the stereotype of a bitch, although she have only had three men in her life, if you think of it. No wonder why the public should not apply the same judgment categories of a fiction (both literary and televisional) even to ordinary people.

Italian Version

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Dietro la maschera: apologia dello pseudonimo

L'importanza di chiamarsi Ernesto

Ho una venerazione viscerale per Oscar Wilde, sia come scrittore che come personaggio, sebbene sia inflazionato come le frasi dei Baci Perugina. La qual cosa mi fa stringere sempre il cuore, anche se nell’angolo razionale – e remoto – della mia psiche io sia più che convinta che le sfrenate condivisioni sui social network avrebbero prodotto in lui un immenso, e perverso, piacere, come lo è stato prendere per i fondelli l’intera upper middle class inglese per decenni, sul finire del XIX secolo. Anche la sottoscritta tende a utilizzarlo e citarlo in maniera quasi spasmodica, tuttavia per giustificarmi dico a me stessa che lo faccio come mero tributo intellettuale a uno dei più grandi e geniali scrittori inglesi.

Recentemente, ho riletto The importance of being Earnest. A trivial comedy for serious people, che consiglio di leggere in lingua originale (come tutte le altre opere dell’autore, anche Il ritratto di Dorian Gray) per comprendere i numerosi giochi di parole e allusioni utilizzati da Wilde a partire dal titolo, che per mantenere il word-play avrei tradotto L’importanza di essere Franco – a differenza del più comune L’importanza di chiamarsi Ernesto – anche se Franco non è l’esatta traduzione di Earnest che significa piuttosto “serio” e/o “onesto”. È particolarmente consigliata la trasposizione cinematografica del 2002 diretta da Oliver Parker e interpretata da Colin Firth e l’indimenticato Rupert Everett, un gioiellino di drama in costume.

La breve commedia è un riuscitissimo accostamento di affermazioni aforistiche assurde e ciniche, che compongono un divertente ritratto della società e delle maniere dell’epoca, criticate con la leggerezza impudente che contraddistingue lo scrittore dublinese. È intelligente, tremendamente intelligente, checché lo stesso autore, ironicamente, la descriva come “trivial”. Poche parole scelte (neanche un centinaio di pagine di script), e dialoghi inconsistenti in superficie ma profondi per la riflessione. La miglior performance è da attribuire a Lady Bracknell durante il colloquio con Jack “John” Worthing, un ritratto delineato con arguzia per rappresentare la vacuità di un’intera classe sociale, che distoglie lo sguardo dal vizio e perora la causa della virtù ipocrita.

Jack: I have lost both my parents.
Lady Bracknell: To lose one parent, Mr. Worthing, may be regarded as a misfortune; to lose both looks like carelessness. […] I would strongly advise you, Mr. Worthing, to try to acquire some relations as soon as possible, and to make definite effort to produce at any rate one parent, of either sex, before the season is quite over.

Wilde, per tutta la durata della commedia, sembra voler giocare con il lettore, o gli spettatori pensando alla rappresentazione teatrale. La risata che provoca è immediata, ma le parole sono scelte accuratamente, e il lettore “interagisce” con il testo cercando di demistificare l’illusione provocata da affermazioni contraddittorie e teatrali, pensate per stupire. Definirei Oscar Wilde come la versione maschile e sfacciata dell’ironia e dell’arguzia più riservate, ma non meno taglienti, di Jane Austen, vissuta però cinquant’anni prima.

Uno scambio di battute, presente in una delle scene omesse dalla redazione definitiva, viene in mio aiuto per introdurre il tema dello pseudonimo.

Jack Worthing: You are Gribsby, aren’t you? What is Parker like?
Gribsby: I am both, sir. Gribsby when I am on unpleasant business, Parker on occasions of a less serious kind.

L’avvocato tenuto a riscuotere un pagamento per procura rivela la propria doppia identità. Gribsby per gli affari spiacevoli, e viceversa Parker per quelli lieti. L’intera commedia di Wilde ruota attorno a un misunderstanding linguistico (e non solo) riguardo il nome Ernest, di cui Jack si serve in città, mentre in campagna lo utilizza come identità fasulla di un fratello inesistente (e libertino) che verrà successivamente impersonato da Algernon (seduttore come non ne fanno più, aggiungerei). Le stesse signorine, Gwendolen e Cecily, si innamorano non delle personalità rispettivamente di Jack e Algernon, ma del nome proprio con cui essi si sono presentati per la prima volta.

Gwendolen: Even before I met you I was far from indifferent to you. We live, as I hope you know, Mr. Worthing, in an age of ideals. The fact is constantly mentioned in the more expensive monthly magazines, and has reached the provincial pulpits I am told: and my ideal has always been to love some one of the name of Ernest. There is something in that name that inspires absolute confidence. The moment Algernon first mentioned to me that he had a friend called Ernest, I knew I was destined to love you.

Sia l’avvocato che Jack hanno esternato l’esigenza di una denominazione differente a partire dalle circostanze. Il medesimo ragionamento può essere applicato alla letteratura, nella quale da sempre vengono usati pseudonimi più o meno risaputi e per svariati motivi. I pen names vengono impiegati anche da autori piuttosto noti per nascondere la propria identità, in particolare quando decidono di cambiare genere letterario, ma non solo. Accade che i lettori, come Gwen e Cecily, “si innamorino” di un nome, quello dell’autore stampato sulla copertina; accade che i lettori “si innamorino” di una parte (ridotta) dell’estro artistico di uno scrittore e non vogliano lasciarlo evolvere. Negli anni ‘80 è stato il caso di Stephen King, prolifico autore conosciuto soprattutto per la sua produzione horror. King decide di crearsi una nuova identità, completa di biografia inventata (con annesso figlio morto tragicamente). Non solo un nome da apporre in copertina. Nasce così Richard Bachman.

In due occasioni, King spiega la propria scelta (The importance of being Bachman – 1996 – e Why I was Bachman – 1985, quest’ultima utilizzata come prefazione all’edizione italiana Sperling & Kupfer), che è personale ma anche esistenziale, come se avesse creato una persona nella quale riversare una parte privata, sconosciuta, di se stesso. L’autore statunitense, infatti, ha creato un alter ego perfettamente costruito e compiuto con il quale scrivere altre storie da una nuova prospettiva e impregnate di “low rage and simmering despair”. L’eteronimo gli avrebbe dato la possibilità di esprimersi senza il peso del proprio nome, gli avrebbe dato la possibilità di scrivere per il proprio diletto e di essere apprezzato per il contenuto e non per l’identità a cui i lettori erano già affezionati. Bachman ha detto quello che Stephen King non avrebbe potuto, come egli stesso ha ammesso. Ciò nonostante moltissimi lettori si sono sentiti traditi dall’autore, ma King spiega meravigliosamente la propria scelta, anche se con una punta di amarezza.

When it was written, Bachman’s alter ego (me, in other words) wasn’t in what I’d call a contemplative or analytical mood. Bachman was never created as a short-term alias; he was supposed to be there for the long haul, and when my name came out in connection with his, I was surprised, upset, and pissed off. […] Probably the most important thing I can say about Richard Bachman is that he became real. […] He took on his own reality, that’s all, and when his cover was blown, he died. I made light of this in the few interviews I felt required to give on the subject, saying that Richard Bachman had died of cancer of pseudonym, but it was actually shock that killed him: the realization that sometimes people just won’t let you alone. […] The importance of being Bachman was always the importance of finding a good voice and a valid point of view that were a little different from my own. Not really different; I am not schizo enough to believe that. But I do believe that there are tricks all of us use to change our perspectives and our perceptions – to see ourselves new by dressing up in different clothes and doing our hair in different styles – and that such tricks can be very useful, a way of revitalizing and refreshing old strategies for living life, observing life, and creating art.

È accaduta una situazione simile a J.K. Rowling qualche mese fa. La creatrice di Harry Potter aveva pubblicato il 30 aprile The Cuckoo’s Calling sotto lo pseudonimo maschile Robert Galbraith, che secondo l’etimologia significherebbe “famoso estraneo” (qui lo chapeau è d’obbligo), sebbene l’autrice abbia dichiarato che ha scelto questo nome perché Robert F. Kennedy è il suo eroe e, inoltre, perché da bambina voleva sempre essere chiamata “Ella Galbraith”. L’editore della crime novel è Sphere, una sezione editoriale di Little Brown, medesima casa editrice di The Casual Vacancy. La mamma di Harry Potter ha dichiarato, dopo essere stata pizzicata dal The Telegraph, che scrivere sotto pseudonimo è stato “liberatorio”, un ritorno alle origini.

I was yearning to go back to the beginning of a writing career in this new genre, to work without hype or expectation and to receive totally unvarnished feedback. It was a fantastic experience and I only wish it could have gone on a little longer. […] If anyone had seen the labyrinthine plans I laid to conceal my identity (or indeed my expression when I realized that the game was up!) they would realize how little I wanted to be discovered.

Alcuni lettori, però, sembrano non accettare questa scelta, che comporta per lo scrittore la perdita totale dei benefici dati dalla propria popolarità (Bachman aveva venduto circa 40mila copie, dopo la rivelazione 400mila; 8500 copie sia in cartaceo che digitale e due offerte per trasposizioni televisive per Robert Galbraith prima che si scoprisse essere la Rowling). Il problema è la relazione, che comporta la spesa di un segmento della propria libertà. Come accade più diffusamente per attori e cantanti, anche gli scrittori devono dividersi con il pubblico, renderlo partecipe. Donare all’umanità delle storie, entrare in relazione con il pubblico implica un accorciamento delle distanze. L’immagine pubblica crea un rapporto personale fittizio, ma anche tramite le parole scritte il lettore sente l’autore più vicino, come se fosse un amico, perché – a differenza dei decenni e secoli precedenti – lo scrittore è sempre più un personaggio, che espone non solo le proprie opere, ma anche se stesso. Non è più una figura sconosciuta, con cui è impossibile venire a contatto. Alla fine i lettori lo reclamano, non lo vogliono diverso e lo scrittore non può più restare solo.

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I pirati del terzo millennio

Immagino che tutti conoscano Capitan Jack Sparrow, magnetico e stravagante protagonista della saga de I pirati dei Caraibi della Disney. Dimenticatelo, perché nel 2013 la parola pirati ricorda quelli somali e quelli digitali. A differenza dei primi – equipaggiati di fucili d’assalto e, più spesso, di armi improvvisate – i pirati digitali annoverano tra le loro file l’umanità più varia, a partire da adolescenti che vestono ancora Hello Kitty, dormono col peluche dell’infanzia e infestano Ask.fm con il loro gergo da istant message (e magari sono anche beliebers o directioners). Se il nemico giurato del grazioso collo lercio di Sparrow è la Corona Britannica, quello degli scaricatori compulsivi e illegali sono gli artisti e gli editori, non di certo la polizia postale.

La pirateria è un fenomeno diffuso non solo nel campo editoriale – basti pensare all’industria discografica – ma è proprio dello scaricamento illegale di libri di cui parlerò oggi. La pirateria è un sintomo, la spia che ci rivela che un cambiamento di paradigma è in corso. Non si tratta solamente di condannare questa prassi ormai consolidata, ma scoprirne le cause intrinseche e cercare di sfruttare il fenomeno a proprio vantaggio, essendo al momento impossibile da debellare. Attenuarne i disagi, ecco il diktat che bisognerebbe seguire, lamentarsene serve a poco.

La pirateria digitale ha subito un sensibile incremento a seguito della massiccia diffusione di e-reader e tablet, supporti ideali per la lettura di e-book che appena qualche anno fa rasentava livelli assolutamente trascurabili in Italia. Le politiche degli editori italiani, però, hanno contribuito all’inasprimento del fenomeno dei download illegali rendendo disponibile un catalogo più vasto di libri digitali a un prezzo proibitivo che, sovente, supera anche i dieci euro. Ciò ha consolidato l’abitudine a usufruire degli e-book piratati piuttosto che l’acquisto attraverso Bookrepublic e altre piattaforme dedicate. In particolare gli editori tradizionali, che si assicurano i maggiori ricavi dall’edizione cartacea (a differenza dei nativi digitali), dovrebbero pubblicare gli e-book a prezzi più accessibili che non superino i quattro euro, giacché le spese per editing, traduzione, correzione, grafica sono ampiamente già coperti dai ricavi del cartaceo.

Le case editrici hanno peccato di scarsa lungimiranza anche nel trattare con il digitale: non hanno saputo adeguarsi alle nuove esigenze e ai cambiamenti in atto, hanno investito sul breve periodo ricercando affannosamente nuovi bestseller – a discapito dei longseller. Le major si sono impegnate per la pubblicazione di numerosissimi romanzi di scarsa qualità, da una parte abituando una fascia di lettori alla mediocrità e dall’altra precludendo a romanzi più meritevoli – anche stranieri – di venir pubblicati. Si distinguono in questo panorama una manciata di editori indipendenti che hanno cercato anche in pochi anni di fidelizzare il lettore attraverso una linea editoriale precisa e studiata, volta alla pubblicazione di testi ritenuti di qualità che potessero fidelizzare una fascia di lettori che permettesse loro la sopravvivenza.

I grandi successi editoriali hanno da sempre favorito, grazie ai loro lauti incassi, l’investimento in pubblicazioni di nicchia, che non avrebbero di certo potuto vendere centinaia di migliaia di copie. Ora invece, a causa anche di una pesantissima crisi libraria (nel primo semestre 2012 il Gruppo Mondadori aveva registrato un –67% che si è risolto in una percentuale positiva solo grazie alla trilogia erotica della James), gli editori preferiscono sempre più spesso la certezza degli epigoni, sebbene poi i risultati non siano neanche lentamente soddisfacenti come prospettato. Moltissimi lettori, quindi, preferiscono scaricare un romanzo e “testarlo”, piuttosto che comprarlo a scatola chiusa. Anche la narrativa di genere, soprattutto riguardante il fantastico, è stata inquinata da romanzi di scarsa qualità (da cui proviene l’equazione intrattenimento = pessima qualità), strategia che non ha pagato nel lungo periodo. In America i vampiri sono sulla cresta dell’onda fin dagli anni ‘90 grazie al successo di celebri saghe scritte da Laurell K. Hamilton e Anne Rice, solo per fare qualche esempio; in Italia il fenomeno è andato esaurendosi in circa un lustro, e attualmente subiamo i postumi del fenomeno con la pubblicazione di libri i cui diritti sono stati acquistati negli anni scorsi. Molti romanzi interessanti, però, sono rimasti ancora inediti, per la gioia dei lettori che possono leggere in lingua originale.

Le cause dell’aumento della pirateria sono dunque due: i prezzi proibitivi degli e-book, che talvolta sono anche superiori al prezzo del cartaceo scontato, e la disaffezione dei lettori per l’offerta libraria. Poco saggiamente, inoltre, le case editrici hanno cercato di risolvere il problema utilizzando il codice DRM (Digital Rights Management), che dovrebbe impedire la copia dell’e-book. Uso il condizionale perché in realtà la tecnologia DRM è totalmente inefficace, persino per chi non è un genio dell’informatica o il gemello non riconosciuto di Sheldon. Il DRM preclude la possibilità al lettore di poter leggere il libro acquistato su più dispositivi, e risulta una grande noia per chiunque acquisti legalmente. Chi ha fatto della pirateria il proprio hobby considera queste trovate delle divertenti facezie. A perderci, anche in questo caso, è il lettore, privato della stessa libertà che fornisce il cartaceo (che può essere letto in qualunque momento, in qualunque modo e anche prestato) che, nonostante sia il principale acquirente, non beneficia delle attenzioni degli editori.

Spesso si leggono le – legittime – lamentele degli scrittori. C’è un però. Sono inutili. I lettori che usufruiscono della pirateria non smetteranno di farlo perché qualcuno sui social network o sui blog spiegherà loro quanto tempo – e sofferenze di varia natura – hanno utilizzato per scrivere il loro romanzo. È ininfluente. Al lettore interessa la materia, l’intrattenimento. Il risultato, non il processo. Cercare di convincerli svelando il lato umano della scrittura è una perdita di tempo utile per fare altre cose, tipo imparare a fare la pizza, cosa che personalmente a me non è mai riuscita (come i muffin). La pirateria, invece, dovrebbe essere sfruttata, soprattutto dagli scrittori emergenti italiani.

La pirateria, infatti, permette al libro di circolare in modo massiccio attraverso una fascia amplissima di lettori che altrimenti, con i canali tradizionali (e lacunosi) della piccola editoria, sarebbe impossibile raggiungere. Il free download, anche se illegale, potrebbe essere convertito in un’ottima strategia di marketing (se ben utilizzato) che consentirebbe a uno sconosciuto di entrare nelle librerie virtuali di migliaia di utenti. Il pensiero secondo il quale una copia piratata è una copia in meno acquistata è una chimera. Il 90% dei pirati non avrebbero speso nemmeno 99 cent per i libri che scaricano illegalmente, e questo per vari motivi. Uno è sicuramente un motivo di tipo economico: non tutti i lettori compulsivi possono permettersi la spesa di tutti i libri che vorrebbero leggere, e da questo punto di vista il servizio bibliotecario non aiuta perché scarso e poco capillare. A questo si aggiunge il timore di spendere invano del denaro per un prodotto scadente. Si aggiungano, poi, i lettori che condividono l’idea di cultura libera fruibile a tutti; per loro il download gratuito è una presa di posizione ideologica (ma sono una minoranza).

Gli scrittori dovrebbero quindi puntare sul prodotto, sia dal punto di vista contenutistico che grafico. Il romanzo che propongono deve essere ammiccante, avere una sinossi accattivante e una copertina originale, ben fatta e costruita, non gli orrori che sembrano essere fatti da un bambino con Paint (che è la prassi, quasi). La grafica dovrebbe essere il biglietto da visita, perché anche dall’esteriorità il lettore capisce quanto impegno è stato profuso per la nascita di quel libro. In secondo luogo lo scrittore (e l’editore) dovrebbe puntare sullo scritto: presentare un’impaginazione ariosa, un testo senza errori che distolgano l’attenzione, una trama originale e una bella scrittura. Se il romanzo è meritevole, la pirateria potrebbe anche scatenare un circolo virtuoso non indifferente (non è inusuale il successivo acquisto del cartaceo o dell’e-book se soddisfatti della lettura), perché talvolta anche il lettore sa premiare gli sforzi e la qualità.

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Signoria e servitù secondo Margaret Powell

Ai piani bassi

“I’ll be leaving in the morning Lady Grantham, I doubt we’ll meet again.”  “Do you promise?
Downton Abbey

Difficile resistere al lato oscuro del marketing. È come cercare di non mangiarsi a cucchiaiate un vasetto di Nutella innocente. Sempre più spesso, negli ultimi anni, le case editrici hanno deciso di spogliarsi di ogni parvenza di  “rispettabilità” per lasciarsi trascinare dal trend delle fascette e degli strilli esagerati, come testimonia il blog Fascetta Nera, che raccoglie quelle più buffe e divertenti.

Ai piani bassi di Margaret Powell è stata una delle vittime designate della cattiva promozione editoriale di Einaudi, che lo designa come il libro che ha ispirato la serie tv Downton Abbey. In realtà le memorie della Powell prendono avvio nell’Inghilterra degli anni Trenta, raccontando l’ascesa dell’autrice stessa da semplice sguattera a cuoca, mentre Downton Abbey è ambientato negli anni Dieci e racconta gli intrighi e le relazioni di una famiglia nobile all’inizio del nuovo secolo. Sebbene a dividerli ci siano solo un paio di decenni, difficilmente Julian Fellowes ha adottato il testo della Powell come strumento per caratterizzare la vita dei domestici nella tenuta del conte di Grantham: Ai piani bassi, infatti, non è un documento accurato del segmento storico che era di suo interesse e, infine, l’affresco della quotidianità dei domestici nella serie in costume è stato chiaramente edulcorato (probabilmente per rendere la trasposizione più adattabile alla sensibilità del pubblico moderno), quasi ricoperto da una patina di sentimentalismo che lega i dipendenti alla famiglia nobile a cui sono sottoposti. È più probabile che abbia ispirato invece Upstairs, Downstair, serie della BBC One del 2010 scritta e diretta da Heidi Thomas, naturale continuazione dell’omonimo period drama trasmesso dalla ITV dal 1971 al 1975.

Nonostante la presentazione non proprio veritiera, Ai piani bassi raffigura uno spaccato storico affascinante proprio in virtù della sua soggettività, filtrata da una voce narrante che però mantiene sempre un certo grado di impersonalità. L’opera ha come soggetto privilegiato i ricordi della Powell, che talvolta sembrano essere accarezzati da una sottile malinconia, come se l’autrice stessa rimpiangesse quei giorni di duro lavoro e misere condizioni. La nostalgia della sicurezza, sebbene quella derivante dalla consapevolezza di appartenere a un ceto inferiore, in contrasto con l’imprevedibilità del progresso economico e sociale? Forse. Un quesito molto controverso, considerando il tradizionalismo ferreo delle persone a servizio (una forma mentis instillata fin dalla tenera età con l’abitudine), perché queste memorie restituiscono un’immagine particolarmente vivida della velocità con cui il secolo breve, secondo la definizione di Hobsbawn, ha finito per esaurirsi in cambiamenti epocali, inimmaginabili anche per i più ottimisti e lungimiranti.

Le differenze sociali sono sempre accentuate da un abisso incolmabile, tuttavia anche in Downton Abbey si nota come siano spesso gli stessi domestici a sottolineare il divario esistente tra le classi, e come siano essi predisposti a preservare l’ordine stabilito come silenziosi guardiani.  Al conservatorismo e all’eccessiva virtù di Mr Carson – il maggiordomo di Downton di cui, in seguito, si scoprirà un passato quantomeno scandaloso a suo dire – si contrappone, infatti, un’anticonformista Lady Sybil Crawley, sinceramente devota alla causa suffragista che sceglierà di far prevalere l’amore sulle convenzioni sociali sposando Tom Branson, un rivoluzionario irlandese alle dipendenze del VI conte di Grantham come chauffeur.

Il mio primo ricordo è che gli altri bambini sembravano tutti più ricchi di noi.

Lo stile di scrittura di Ai piani bassi è lucido, cristallino quasi, e allo stesso tempo comunica una sensazione di familiare intimità; la Powell, infatti, si dimostra una narratrice accorta e sensibile nel rivelare con leggerezza e un distintivo humor inglese, senza indulgere in rancore o rabbia, anche gli episodi più spiacevoli della sua esistenza. Frequenti sono i paralleli fra le epoche, un continuo susseguirsi e sovrapporsi di piani temporali e costumi differenti, costruiti attraverso una scrittura confidenziale che veste i toni del realismo più riuscito. Leggendo le memorie di Margaret Powell è impossibile non soffermarsi su alcuni significativi paragrafi, che alludono più di quanto non raccontano. Talvolta è impossibile non provare commozione.

Le lacrime mi rigarono le guance: mi sembrava terribile che qualcuno potesse considerarmi così vile da rifiutarsi addirittura di prendere qualcosa dalle mie mani, se prima non l’avevo messo su un vassoio d’argento.  […] A mia madre non ne parlai neppure. A che sarebbe servito rendere infelici anche loro? Comunque, credo che si sarebbe limitata a dirmi di non farci caso, e avrebbe avuto ragione: era l’unica cosa possibile, se si voleva conservare un po’ di orgoglio. Non farci caso. […] In realtà mi sono resa conto, in tutti i miei anni di servizio, che i datori di lavoro si interessavano sempre molto del nostro benessere morale. Del benessere fisico gli importava meno di niente: fintanto che eri in grado di lavorare, pazienza se avevi mal di schiena, mal di stomaco o mal di chissà che, ma si preoccupavano della tua moralità sotto tutti gli aspetti. Per loro, questo significava prendersi cura della servitù, interessarsi di chi stava in basso. […] Poco alla volta il coraggio morale viene a mancare: stando a servizio, ho finito per tollerare tante cose che non mi piacevano.

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Di sesso, amore e altri (pochi) rimedi: True Blood

A causa di un amico, m’è capitato di leggere su Ask.fm (di cui devo ancora cogliere il significato intrinseco, a parte un continuo show off) Io non faccio sesso, ma l’amore, l’antitesi dell’ormai celeberrimo I fuck hard di Christian Grey, il compagno di giochi di milioni di donne che ha scomodato anche i pompieri, e non per uno spogliarello. L’utente del social network è di sesso femminile, e come dubitarne. Solitamente è la donna che incarna l’ideale romantico della coppia, nonché la depositaria di un’allegoria universale che la personalizza da secoli. Scriveva Simone de Beauvoir:

Poiché in quanto Madre fu ridotta a serva, in quanto madre sarà amata e venerata. Dei due antichi volti della maternità, l’uomo d’oggi ne vuole conoscere uno solo, quello sorridente. Limitato nel tempo e nello spazio, con un corpo finito e una vita che deve spegnersi, l’uomo non è che un individuo imprigionato nel seno d’una natura e d’una storia che gli sono estranee. Limitata come lui, simile a lui, perché anch’essa abitata dallo spirito, la donna appartiene alla natura, è attraversata dalla corrente senza fine della vita; ha quindi il carattere di mediatrice tra l’individuo e il cosmo. Quando l’immagine della madre diviene rassicurante e santa, si capisce che l’uomo si volga a lei con amore. Sperduto nella natura, cerca di liberarsene; ma diviso da lei, aspira a ricongiungersi. Saldamente assista nella famiglia, nella società, in armonia con le leggi e i costumi, la madre è l’incarnazione del Bene: la natura cui partecipa diviene fausta, propizia; cessa d’essere nemica dello spirito.

Provate a sostituire Donna a Madre, e vedrete che la riflessione rimarrà altrettanto valida. L’immagine del femminile è come un foglio di carta: senza spessore, può mostrare solo due facce che corrispondono alla santa e alla puttana. La donna è la depositaria di valori positivi, l’oggetto destinale attraverso il quale può avvenire la procreazione, l’incarnazione della fedeltà all’uomo e dell’abnegazione verso il prossimo, che giunge anche all’estrema negazione dell’identità, perché essa si è costruita interamente sul sacrificio per l’altro e non sul valore della persona che si è. Nella maggior parte dei casi, la donna è percepita come mera fisicità, e anche al centro dei dibattiti femministi il posto d’onore spetta al corpo mercificato, strumento di promozione anche di un dentifricio, che poco, credo, ha a che fare con lo splendore dello smalto dentinale. Questa immagine è una costruzione culturale che permane ancora oggi, in un ciclico gender backlash che ci fa regredire allo stato precedente, dandoci solo qualche soddisfazione passeggera.

Cosa accadrebbe se i ruoli fossero invertiti? Quale sarebbe la reazione del pubblico se a una donna venissero attribuiti atteggiamenti tipicamente maschili? Abbiamo la risposta grazie alla performance di Sookie Stackhouse nel settimo episodio della stagione di True Blood in corso, In the evening. Alla fine della puntata precedente, Don’t you feel me, Sookie dona il proprio corpo a Warlow dopo aver pronunciato queste parole: “In città c’è una opinione generalizzata su che razza di ragazza sono. Mi chiamano troietta amante del pericolo. Vedi, sto iniziando a pensare che hanno ragione”, e l’espressione dipinta sul suo viso è emblematica: è disperata, hopeless quasi. Il nucleo di ideali e speranze della serie, colei che ha abbracciato la natura vampirica per amore – twice –, decide che non vale più la pena lottare. Nella mente di Sookie, finora proiettata nel vissero felici e contenti, si fa strada la rassegnazione, anche se il desiderio di essere amati non può essere debellato con altrettanta facilità, il per sempre è un’esigenza psicologica tatuata in modo indelebile nel nostro DNA, e non solo a causa dell’happy ending disneyano.

I ruoli tra maschile e femminile, qui, sono invertiti: è Sookie a prendere le distanze, a fare del proprio cinismo una corazza per proteggere i propri sentimenti, mentre Warlow è il depositario delle illusioni. “Non è che pensi che, solo perché abbiamo fatto sesso, ti sposerò? […] Non sei mai stato con una donna, quando le cose tra voi non andavano bene?” “Sai che questo non è stato solo sesso“, dice Warlow. “Non è una semplice infatuazione.” Sookie risponde: No, non lo è mai. E, dietro quell’ironia spenta, possiamo scorgere un fondo di verità, perché anche per Sookie è difficile separare il piacere fisico dall’amore che sembra sempre scivolarle via dalle mani. L’opinione generale del fandom sulla signorina fatata non ha mai oltrepassato l’indimenticabile definizione di Pam, nella quarta stagione: “I am so over Sookie and her precious fairy vagina and her unbelievably stupid name!” Sookie altro non è che la trasformazione da santa (prima era squisitamente vergine) a puttana nell’immaginario comune, sebbene, a pensarci, ha avuto solo tre uomini nella sua vita. Abbastanza, secondo voi? E cosa impedisce al pubblico di applicare le stesse categorie di giudizio della fiction (sia telefilmica che letteraria) anche alle persone normali?

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I giovani e la lettura

Il professore di Storia e Filosofia entra in classe un lunedì mattina, solito orario. Con sommo rammarico degli studenti dell’ultimo anno, è il giorno dell’interrogazione. Tre capitoli da studiare, poco tempo – e voglia – per farlo adeguatamente, soprattutto nel week-end. Non ci sono volontari stavolta, e qualcuno cerca di nascondersi dietro ai compagni per non farsi notare.

La prima domanda giunge inaspettata per Loredana: “Qual è la differenza sostanziale tra l’etica formale kantiana – col suo imperativo categorico – e l’etica contenutistica di Hegel – col ruolo che conferisce alla società e allo Stato?” Se possibile il silenzio si intensifica, facendosi quasi palpabile. Gli alunni si scambiano occhiate stranite. Loredana non conosce la risposta. “Qualcuno vuole intervenire?” chiede l’insegnante rivolgendosi alla classe. Nessuno si azzarda ad alzare la mano. E “Nessuno” non è un nome proprio, in questo caso. Il professore ritenta: “Sai spiegarmi le dinamiche politiche del Continente di Westeros, e come si è arrivati all’attuale instabilità politica della monarchia?” Loredana emette un sospiro di sollievo. Conosce la risposta perfettamente, avrebbe potuto parlare anche di Essos e Sothoryos, i territori al di là del mare, tant’era preparata. L’universo fantastico, con ambientazione medievaleggiante, creato da George R.R. Martin – spietato autore americano che non disdegna uccidere anche i characters a cui il pubblico è più affezionato – era uno dei suoi preferiti, popolato da personaggi vividi e un world building così solido e particolareggiato da sembrare parte di una storia passata diventata leggenda.

Riuscite a immaginare uno scenario scolastico simile, nel quale accanto alle discipline tradizionali viene incoraggiata la lettura tra gli studenti senza imporla come obbligo didattico? La scuola insegna ai bambini l’attività del leggere, la “meccanica”, se così possiamo chiamarla, ma l’amore per la lettura è qualcosa che non può essere imposto. Il piacere della lettura si manifesta quando un soggetto inconsapevole incontra il libro giusto, quello che squarcia il velo di noia che si era depositato sopra la carta stampata. Il verbo leggere non sopporta l’imperativo, scrive Pennac, e come dargli torto? Viceversa, pensate a una società nella quale il libro è diventato merce proibita, illegale. Quanti giovani allora sentirebbero il bisogno, quasi fisiologico, di leggere un libro, senza bisogno di incoraggiamento alcuno: sfogliarlo, guardarlo, annusarlo, stringerlo tra le mani con la consapevolezza di stare trasgredendo alle regole! Quale soddisfazione trarrebbero dalla lettura. Potrebbe persino esistere una Amsterdam della lettura, un nuovo paradiso terrestre dedicato ai feticisti dei libri, a chi li colleziona, a chi li annota, a chi li scrive, a chi li idolatra, a chi li consuma.

Parlavamo di obbligo. È proprio il dovere che sradica il piacere della lettura dal bambino, quello stesso bambino genuinamente entusiasta delle storie che i genitori, improvvisatisi narratori, gli regalavano prima di andare a dormire. “Così scoprì la virtù paradossale della lettura, che è quella di astrarci dal mondo per trovargli un senso”. Il bambino rimane meravigliato da quel gioco alchemico di lettere e suoni dalla cui unione scaturisce la parola: una sequenza di segni che, codificata, racchiude la realtà del mondo, ma anche quella dei sentimenti associati ad essa. “Ha scoperto la pietra filosofale”. Subito il bimbo vuole impadronirsi di questo strumento magico, destreggiarsi fra lettere e sillabe, righe e paragrafi, diventare il padrone del linguaggio che permette la relazione con l’alterità e la creazione di nuovi mondi.

Cosa è successo al desiderio di imparare del bambino? Che ne ha fatto l’adulto di tale preziosa materia? Semplicemente, l’ha lasciata appassire: niente più fiabe e storie prima di addormentarsi. Viene meno così l’intento pedagogico migliore, quello disinteressato e inconscio, frutto di un gesto di altruismo e gratuità: regalare una storia al proprio figlio per il piacere di vederlo felice. Alle figure genitoriali subentra così l’istruzione pubblica, che accresce però la distanza tra la persona e il libro, un abisso sempre più incolmabile perché l’immagine che riflette del libro è univoca: manuale scolastico per lo studio. Il libro non è più la ricompensa alla fine di una giornata, ma un peso, un “compito” da svolgere di malavoglia. E così per tutta l’adolescenza, fino alle soglie dell’età adulta.

Gli studenti delle superiori – denuncia un articolo del Corriere – hanno progressivamente disimparato a leggere, scrivere, ascoltare, il vocabolario è carente, costituito da un lessico povero e da strutture grammaticali semplici, elementari. Noam Chomsky, linguista di fama internazionale, sostiene che il linguaggio cresca nel bambino, non è il risultato dell’apprendimento attivo, anche se ci sono aspetti marginali del linguaggio che devono essere insegnati e imparati. La crescita presuppone nutrimento, ed è proprio quello che manca agli studenti di oggi. Il linguaggio non viene esercitato adeguatamente, manca il sostentamento minimo che ne permetta lo sviluppo e al suo posto viene sostituito il lessico frammentato degli sms, delle chat e dei social network: “un’abbondanza di testi non argomentativi, sconnessi gli uni dagli altri per cui la scrittura diventa espressione di un pensiero simultaneo, non una pratica controllata.” Vengono a mancare, quindi, i presupposti fondamentali della lettura e della scrittura: il silenzio e la riflessione, l’isolamento produttivo.

Come si evince dall’articolo della Taglietti, il dibattito sul complesso rapporto tra giovani e lettura si tinge sempre di retorica fine a sé stessa, soprattutto da parte di chi è poco interessato all’argomento, ma deve comunque scriverci un pezzo per far felice il caporedattore di turno. Già dal titolo (scorretto), Spegnete sms e tablet. I ragazzi non sanno leggere, si evince questa mancanza di interesse e di competenza per l’argomento, come il giornalista di Repubblica che – parlando della strage di Aurora, Colorado – scrive che Neil Gaiman è il papà di Batman, senza tralasciare un’implicita colpa da affidare proprio all’autore inglese per “la follia di un fuoricorso di neuroscienze che ha macchiato di sangue perfino il sogno dei supereroi”. La scontata ed erronea opposizione tra tecnologia e lettura è ormai preistoria (ma non i giornalisti che si improvvisano esperti), nonostante sia più semplice improntare un’analisi superficiale sul contrasto piuttosto che sulla coesistenza di supporti e attitudini differenti.

Lo scarso interesse per la lettura non è da imputare alla tecnologia, al cinema e alla televisione – che potremmo considerare adiáphora –, ma al ridimensionamento delle priorità delle persone: sì bisognerebbe leggere, ma ci sono cose più importanti; sì bisognerebbe sostenere la cultura, ma ci sono cose più importanti, come la crisi economica; sì bisognerebbe leggere, ma ci sono cose più importanti, come lo studio. Tutti concordano sulla necessità di leggere come se fosse un dogma, quasi nessuno cerca invece di fungere da esempio silenzioso. La lettura è un comportamento acquisito fortemente condizionato dal contesto di appartenenza; la presenza in famiglia di genitori lettori è il primo fattore di promozione della lettura, che favorisce in modo determinante la propensione alla lettura dei bambini e dei giovani. Tra i ragazzi di 6-14 anni legge il 77,4% di chi ha madre e padre lettori e solo il 39,7% di coloro che hanno entrambi i genitori non lettori.

La lettura è un piacere abitudinario: un lettore “forte” non legge un libro al mese, forse nemmeno uno a settimana: molti di più. Vive circondato da libri, ne è quasi sommerso, e ne è assolutamente e totalmente felice. Il Lettore ogni giorno dedica qualche minuto o qualche ora alla lettura, qualcosa a cui è assuefatto, che fa parte della routine quotidiana. È come una sigaretta: più fumi, più vuoi fumare, più pacchetti di sigarette compri alla settimana. Più leggi, più ti accorgi della tua ignoranza, e più vuoi leggere. Che sia per intrattenersi, informarsi etc. È un circolo vizioso.

Cosa manca, quindi? L’abitudine, appunto. Quanti genitori vorrebbero che il figlio leggesse di più, senza però aver mai preso in mano un romanzo? In quante trasmissioni televisive si parla di letteratura e cultura in modo serio? In quanti programmi vengono consigliati libri che non siano l’insulso bestseller del momento? Quanti si impegnano davvero nella promozione della lettura? Quanti docenti di lettere impongono come letture per le vacanze solo classici che, nel 99% dei casi, non verranno letti o, nel caso in cui lo fossero, apprezzati? La cultura e la lettura dovrebbero ritornare a essere una priorità per tutti, non solo per i giovani. Perché è proprio il contesto nel quale un bambino si forma e cresce che influisce sul suo comportamento, sulle sue abitudini e attitudini.

È la lettura che stimola il pensiero e la riflessione profonda. Leggere ci rende liberi, perché capaci di scandagliare il reale, problematizzare le situazioni, oltre a rappresentare un gradito passatempo. Ci rende liberi perché impediamo agli altri di strumentalizzarci attraverso parole sulle quali non abbiamo potere – non conoscendole – e l’ignoranza che ci caratterizza. Deve forse stupire che siano stati proprio i libri a essere messi al rogo durante regimi totalitari e dittatoriali, o messi all’indice da una Chiesa sovrana del popolo, che impediva anche la libera interpretazione delle Sacre Scritture?

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Perché un blog letterario, perché ora

Lapis nasce il 31 luglio 2013. Esordisce agli albori del mese successivo, tra l’afa d’Agosto, con questo articolo introduttivo che, metaforicamente, taglia il cordone ombelicale e lascia la creatura libera di conoscere il mondo esterno. Come spiego anche in About, Lapis è un esperimento, nient’altro, e il format del blog letterario è un utile medium per veicolare – spero – un dialogo proficuo con altri lettori e blogger, a cui mi rivolgo.  Non sono una neofita della rete, anzi seguo con interesse da alcuni anni altri portali e blog, sebbene non abbia mai sentito la necessità di ritagliarmi uno spazio personale da coltivare autonomamente.

Il fenomeno del book blogging, sebbene non sia esteso come quello americano, rappresenta per la sottoscritta un delizioso rompicapo, perché connotato dalle diverse identità degli amministratori, che ne plasmano le caratteristiche peculiari contribuendo alla realizzazione di una prismatica rete di contatti. In modo particolare, lo sviluppo di una blogosfera costituita soprattutto da blog personali – gestiti da singoli utenti – ha permesso a una moltitudine di persone giovani di poter esprimere il proprio parere senza intermediazioni, lasciando fluire indisturbati quelli che prima erano solamente pensieri confusi. La parola scritta ordina e sublima il caos, e nel contempo concorre al miglioramento costante dello scrivente.

In secondo luogo, un blog costituisce al momento uno degli strumenti più efficaci per la diffusione della lettura e la contaminazione di nuovi soggetti, è una piazza virtuale aggregante, che con un collante speciale unisce persone dagli interessi affini, anche se con opinioni differenti e contrastanti. Il travaglio del negativo, tuttavia, costituisce la via privilegiata (e imprescindibile) per il progresso, per un continuo processo di superamento della propria limitata conoscenza. Il dialogo, insomma, chiarisce le idee e affina il pensiero. Nel 1886 Friedrich Nietzsche in Al di là del bene e del male scrisse un’affermazione decisamente socratica (non diteglielo!), ma condivisibile: “L’uomo cerca un ostetrico delle proprie idee, l’altro qualcuno cui egli possa recare aiuto: così nasce un buon dialogo.” Abbiamo quindi bisogno dell’altro, un altro che non si riduca al mero libro, ma che possa parlare e interagire. Purtroppo per noi i libri non sono esseri senzienti, e difficilmente potremmo permetterci un dialogo con l’autore per dei chiarimenti. Accontentiamoci, quindi, di desumere i loro pensieri chiacchierando. Ecco spiegato il motivo del blog. Vi va di unirvi a me?

Intendo trattenere, non insegnare, non predicare.
– Elmore Leonard

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