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Di sesso, amore e altri (pochi) rimedi: True Blood

A causa di un amico, m’è capitato di leggere su Ask.fm (di cui devo ancora cogliere il significato intrinseco, a parte un continuo show off) Io non faccio sesso, ma l’amore, l’antitesi dell’ormai celeberrimo I fuck hard di Christian Grey, il compagno di giochi di milioni di donne che ha scomodato anche i pompieri, e non per uno spogliarello. L’utente del social network è di sesso femminile, e come dubitarne. Solitamente è la donna che incarna l’ideale romantico della coppia, nonché la depositaria di un’allegoria universale che la personalizza da secoli. Scriveva Simone de Beauvoir:

Poiché in quanto Madre fu ridotta a serva, in quanto madre sarà amata e venerata. Dei due antichi volti della maternità, l’uomo d’oggi ne vuole conoscere uno solo, quello sorridente. Limitato nel tempo e nello spazio, con un corpo finito e una vita che deve spegnersi, l’uomo non è che un individuo imprigionato nel seno d’una natura e d’una storia che gli sono estranee. Limitata come lui, simile a lui, perché anch’essa abitata dallo spirito, la donna appartiene alla natura, è attraversata dalla corrente senza fine della vita; ha quindi il carattere di mediatrice tra l’individuo e il cosmo. Quando l’immagine della madre diviene rassicurante e santa, si capisce che l’uomo si volga a lei con amore. Sperduto nella natura, cerca di liberarsene; ma diviso da lei, aspira a ricongiungersi. Saldamente assista nella famiglia, nella società, in armonia con le leggi e i costumi, la madre è l’incarnazione del Bene: la natura cui partecipa diviene fausta, propizia; cessa d’essere nemica dello spirito.

Provate a sostituire Donna a Madre, e vedrete che la riflessione rimarrà altrettanto valida. L’immagine del femminile è come un foglio di carta: senza spessore, può mostrare solo due facce che corrispondono alla santa e alla puttana. La donna è la depositaria di valori positivi, l’oggetto destinale attraverso il quale può avvenire la procreazione, l’incarnazione della fedeltà all’uomo e dell’abnegazione verso il prossimo, che giunge anche all’estrema negazione dell’identità, perché essa si è costruita interamente sul sacrificio per l’altro e non sul valore della persona che si è. Nella maggior parte dei casi, la donna è percepita come mera fisicità, e anche al centro dei dibattiti femministi il posto d’onore spetta al corpo mercificato, strumento di promozione anche di un dentifricio, che poco, credo, ha a che fare con lo splendore dello smalto dentinale. Questa immagine è una costruzione culturale che permane ancora oggi, in un ciclico gender backlash che ci fa regredire allo stato precedente, dandoci solo qualche soddisfazione passeggera.

Cosa accadrebbe se i ruoli fossero invertiti? Quale sarebbe la reazione del pubblico se a una donna venissero attribuiti atteggiamenti tipicamente maschili? Abbiamo la risposta grazie alla performance di Sookie Stackhouse nel settimo episodio della stagione di True Blood in corso, In the evening. Alla fine della puntata precedente, Don’t you feel me, Sookie dona il proprio corpo a Warlow dopo aver pronunciato queste parole: “In città c’è una opinione generalizzata su che razza di ragazza sono. Mi chiamano troietta amante del pericolo. Vedi, sto iniziando a pensare che hanno ragione”, e l’espressione dipinta sul suo viso è emblematica: è disperata, hopeless quasi. Il nucleo di ideali e speranze della serie, colei che ha abbracciato la natura vampirica per amore – twice –, decide che non vale più la pena lottare. Nella mente di Sookie, finora proiettata nel vissero felici e contenti, si fa strada la rassegnazione, anche se il desiderio di essere amati non può essere debellato con altrettanta facilità, il per sempre è un’esigenza psicologica tatuata in modo indelebile nel nostro DNA, e non solo a causa dell’happy ending disneyano.

I ruoli tra maschile e femminile, qui, sono invertiti: è Sookie a prendere le distanze, a fare del proprio cinismo una corazza per proteggere i propri sentimenti, mentre Warlow è il depositario delle illusioni. “Non è che pensi che, solo perché abbiamo fatto sesso, ti sposerò? […] Non sei mai stato con una donna, quando le cose tra voi non andavano bene?” “Sai che questo non è stato solo sesso“, dice Warlow. “Non è una semplice infatuazione.” Sookie risponde: No, non lo è mai. E, dietro quell’ironia spenta, possiamo scorgere un fondo di verità, perché anche per Sookie è difficile separare il piacere fisico dall’amore che sembra sempre scivolarle via dalle mani. L’opinione generale del fandom sulla signorina fatata non ha mai oltrepassato l’indimenticabile definizione di Pam, nella quarta stagione: “I am so over Sookie and her precious fairy vagina and her unbelievably stupid name!” Sookie altro non è che la trasformazione da santa (prima era squisitamente vergine) a puttana nell’immaginario comune, sebbene, a pensarci, ha avuto solo tre uomini nella sua vita. Abbastanza, secondo voi? E cosa impedisce al pubblico di applicare le stesse categorie di giudizio della fiction (sia telefilmica che letteraria) anche alle persone normali?

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